Tutti ci ricordiamo la nostra maestra delle elementari. E qualche volta anche il maestro, perché sono delle figure fondamentali in un’età in cui ancora dobbiamo non solo formare la nostra identità, ma imparare a riconoscere e capire come gestire le emozioni nostre e altrui.
In questo numero di “Heisenberg” ho deciso di incontrare un maestro speciale, Gabriele Camelo, che su Instagram è ormai una star alla pagina @maestro_gabriele. È diventato celebre perché riesce a educare bambini difficili, coinvolgendoli in video in cui mostra il potere curativo e trasformativo delle emozioni, e giudica i lavori di questi alunni con un approccio motivazionale, esprimendo tutto il suo affetto per rendere i bambini più forti grazie alla relazione speciale che si crea.
Già da questa semplice spiegazione potete capire quanto sia rivoluzionario il suo metodo. E potete anche immaginare quali storie possa raccontare un maestro così.
E infatti questa intervista mi sta particolarmente a cuore, e ci troverete molti elementi in comune con i temi quantici.
Leggetela, come dice il maestro Gabriele, raccogliendo il vostro cuore, e imparate a riflettere e guardare le vostre emozioni.
Cosa vuol dire davvero insegnare ai bambini?
Benvenuto Gabriele, ti do del tu. Noi in ogni numero di “Heisenberg” affrontiamo il senso di una trasformazione, in questo mese di aprile sarà la trasformazione dalla solitudine all’amore. Parto subito col domandone: in un tuo post ti ho sentito dire che sei single e non ancora papà, ma hai un forte istinto paterno e si vede nell’amore che metti nel tuo lavoro con i bambini.
Ogni giorno tu accompagni i tuoi scolari nella loro trasformazione dalla solitudine, cioè il sentirsi singoli, spesso con problemi di relazioni, insicuri, all’amore di essere accettati e accettarsi. Tu come la interpreti questa trasformazione dalla solitudine all’amore, dal singolo al collettivo, l’apertura dall’interno all’esterno?
Guarda, il tema di questo mese di “Heisenberg” è un po’ la sintesi della mia vita. Uno dei miei mostri è stata la solitudine, collegata a un senso di non appartenenza.
Da un lato ciò è dipeso dal fatto che sono nato e cresciuto in una famiglia disgregata, ho vissuto fra Roma e Palermo, un po’ a Milano, quindi non ho mai avuto delle radici geografiche. Non mi vergogno a dirti che ho vissuto Natali sereni con le tavole imbandite fino ai miei cinque anni, ma dai sei in avanti i legami familiari si sono rotti e ho passato molti Natali in solitudine, e questo ha creato in me un vuoto emotivo enorme che ho cercato di colmare in tutti i modi.
Per un certo periodo ho lavorato nel mondo televisivo fra Roma e Milano, ma la mia analista mi lanciò una provocazione: “Visto che ti senti felice a Palermo perché non ci vai a vivere?” Io ho capito il messaggio, dobbiamo vivere in un luogo dove ci sentiamo a casa. Solo che dovevo trovarmi un lavoro fisso, e dato che mi piaceva l’idea di insegnare ai bambini ho tentato il concorso per maestro e l’ho superato.
Dopo è avvenuta una svolta nella mia vita, nel momento in cui ho scelto di andare in una scuola nel quartiere popolare della Vucciria. Mi avevano detto che avrei trovato famiglie aggressive e che avrei dovuto educare bambini difficili, ma proprio per questo ho deciso di andare.
Perché la chiami svolta?
Perché scegliere di insegnare ai bambini che altri maestri evitavano ha segnato il primo passaggio dalla solitudine mia alla voglia di non fare sentire soli altri bambini.
Certo, l’impatto è stato tremendo, non lo nascondo, perché dietro bambini aggressivi si celavano situazioni di violenza domestica, di degrado e povertà. Però, ho imparato che insegnare non vuol dire trasmettere delle nozioni ma connettersi con il cuore altrui e anche con il dolore altrui.
Uno dei primi bambini problematici che ho avuto, chiamiamolo A., quando io mi sono messo in contatto profondo con lui si è aperto e ho capito che reagiva con la violenza perché non aveva la serenità degli altri.
Entrare in contatto con il dolore altrui è liberatorio, e questo mi ha permesso di canalizzare l’energia fatta di aggressività di molti bambini e trasformarla in forza costruttiva. La mia vita di maestro è uno snocciolarsi di trasformazioni, di dolori che diventano risorse. Di passaggi dalla solitudine all’amore per sé e per gli altri.
Aiutare i bambini a esprimere le emozioni e renderli consapevoli: la vera sfida dell’insegnamento
Sento tutta l’energia delle tue parole. In un tuo post dicevi che tu esci da casa e vai a casa, perché per te la classe è un’altra “Casa”. È un concetto molto suggestivo, ci spieghi cosa vuoi dire con classe o scuola come casa?
Mah, vedi, la scuola rappresenta per il docente e gli alunni un luogo intimo. I suoi corridoi e stanze sono intrisi di vite ed emozioni, di eventi inattesi, di arrabbiature e lacrime, speranze e antipatie, se poi ci metti i rapporti con i colleghi e la dirigente ti sembra di essere dentro una fiction che vivi giorno dopo giorno, quindi diventa la tua casa.
Molto di questa sensazione di essere casa dipende da come tu trasformi quell’ambiente. Immagina questo parallelismo, per capirci. Una musica che senti continuamente, legata a forti emozioni, diventa come una casa per te. Allo stesso modo, fra le mura della classe suona la tua musica di ogni giorno, fatta dalle vite degli alunni.
Ma quella musica la suoni anche tu, quindi come maestro hai la possibilità di essere creatore di una musica bella con gli studenti. Io infatti dico sempre ai miei alunni: “Bambini noi siamo come una famiglia, quindi dobbiamo imparare a stare bene, un problema di uno è un problema di tutti”.
Io penso che sia bellissimo stare bene e fare stare bene. E insegnare agli altri a stare bene e a far stare bene. Tra l’altro c’è una cosa importante che sanno tutti i maestri e le maestre, ed è confermata dalle neuroscienze: non c’è apprendimento e crescita se non c’è serenità nel cuore.
Questo perché noi funzioniamo con le emozioni, solo dopo scatta l’apprendimento cognitivo. E un bambino nervoso, triste, agitato, non studierà e apprenderà mai nessuna materia.
Però il concetto di casa mi suggerisce un’altra domanda. Mi viene in mente la frase dell’antico filosofo Eraclito che diceva “Il carattere di un uomo è il suo destino”. Ma il carattere, cioè la parola Ethos, in greco arcaico voleva dire “dimora, rifugio”.
E in effetti le abitudini con cui cresciamo creano come delle stanze nella nostra mente in cui ci sentiamo al sicuro nel mondo. Oggi che tipo di comportamenti, o di programmazioni sociali e familiari, chiamiamole così, vedi nei bambini dai 6 ai 10 anni? E come li giudichi?
Bella domanda. Oggi molti bambini vivono col telefonino in mano, i social, i videogiochi. Le bambine già a dieci anni si truccano, giocano a mettersi le unghie finte.
È chiaro che questi atteggiamenti e abitudini sono il frutto delle programmazioni sociali di oggi che non c’erano nei primi anni Novanta quando io avevo dieci anni, perché all’epoca non c’erano i cellulari con Tik Tok e la cultura dell’apparire sui social.
Però io non condanno a priori queste programmazioni, ma mi chiedo cosa di bello se ne può trarre. Perché se tu non intervieni e lasci che i bambini usino Tik Tok solo per fare i video o i balletti è facile poi criticare il mezzo.
Invece puoi aiutare i bambini a esprimere le emozioni e renderli consapevoli di come possono esprimere se stessi con quel mezzo e fargli fare video sulla storia della loro città, con interviste alle persone in strada, per esempio.
Noi dovremmo imparare a riconoscere le nostre abitudini o programmazioni e modificarle per fare qualcosa di buono.
Come funziona la mente dei bambini: le emozioni come motore dell’apprendimento
Che bello sentirtelo dire! Tu studi anche psicologia e neuroscienze. Come le applichi nell’insegnamento, ci fai qualche esempio concreto che ci aiuti a capire come funziona la mente dei bambini?
Il cambio di campo delle neuroscienze ci dimostra che il fulcro della didattica devono essere le emozioni di un bambino, prima che il suo cervello. Questo vuol dire che non bisogna contrastare le emozioni ma accoglierle. Capirlo è fondamentale per educare bambini difficili.
Tu mi chiedi un esempio concreto, pensa a tutti i bambini irrequieti e poco attenti che vengono costretti dai maestri a stare fermi al banco. Lo sai invece che si può sfruttare la naturale tendenza al movimento per studiare italiano, ad esempio?
Ho avuto un bambino iperattivo, chiamiamolo N., che fuggiva dalla classe, si rotolava per terra, ho fatto anche un reel su di lui. Io gli ho chiesto cosa desiderasse e lui mi ha risposto che non voleva lavorare. Che fai? Punti sui premi e le punizioni per cercare di portare quel bambino dentro la classe?
L’approccio emotivo, suggerito dalle neuroscienze, ci spinge a capire cosa vuole davvero il bambino, e così ho fatto con N. Lui amava correre, e così siamo andati in cortile e gli ho chiesto se dopo aver corso aveva voglia di fare la scheda su Dante che faceva la classe. Ebbene, non solo l’ha finita, ma ne voleva fare altre. Incredibile come funziona la mente dei bambini, vero?
Quindi l’energia delle emozioni va raccolta e canalizzata fino a diventare motore dell’apprendimento. Capisci?
È bellissimo quello che dici. Si è molto parlato di te nelle ultime settimane per il tuo modo di dare giudizi motivazionali, e per questo sei stato anche criticato. Perché hai scelto questo modo di giudicare, al di là di quelle che sono le regole del ministero, cosa significa per te parlare ai ragazzi e non ai loro compiti?
Per i bambini sotto i dieci anni, quello che è importante sono le figure di riferimento e quindi le relazioni. Il bambino a quell’età non ha ancora costruito la sua identità, e la costruisce rispecchiandosi negli adulti.
Quindi lavorare sulla relazione umana con parole motivanti come “Ti voglio bene” “Sono fiero di te”, aiuta il bambino a crescere cognitivamente e ad apprendere meglio in un contesto sereno, dove si sente visto e giudicato in positivo.
Qualcuno mi ha criticato perché non si dovrebbe dire a un bambino “Sono fiero di te” ma bensì “Puoi essere fiero di te”. Sono due frasi molto diverse. La prima è una frase calda, c’è la relazione umana, forte, fiduciosa.
La seconda è una frase fredda che sottolinea la bravura del bambino e della sua performance, ma questo può avvenire dopo i dieci anni, dopo che si è formata l’identità e anche la consapevolezza cognitiva del bambino. Quindi per me, se vogliamo sintetizzare tutto questo discorso in una frase: non esiste crescita senza la relazione.
Qualche consiglio del maestro Gabriele per educare bambini difficili grazie al potere delle emozioni
Tu lavori in una scuola di un quartiere di Palermo difficile. Ma i bambini a 6, 7 o 8 anni sono capaci di cose sorprendenti. C’è un episodio che ti ha commosso e che ci vuoi raccontare per lasciarci una bella lezione?
Guarda non fraintendere quello che sto per dirti: a me piacciono le storie che tutti considerano “disgraziate” perché so che dentro si nasconde una grazia che ti riempie il cuore.
Ti cito il caso di una bambina, chiamiamola A. per motivi di privacy. Lei è arrivata a scuola che faceva cose inimmaginabili, non parlava, picchiava, cercava di scappare dall’istituto, dei comportamenti che io non avevo mai visto. Questa bambina aveva il padre in carcere e una mamma che non aveva nulla di una madre.
Io mi sono messo alla sua altezza e le ho fatto capire che volevo solo il suo bene, e questo mi ha permesso di entrare nelle sue difese. Ma il bello viene ora.
Io ho sviluppato l’abitudine con le mie classi di vederci a volte anche i pomeriggi, col permesso dei genitori a volte festeggio il mio compleanno con i bambini.
Di solito i bambini portano un regalino che gli comprano le famiglie, ma A. si è presentata con un peluche e al momento dei doni me lo ha dato. Io le ho detto “Ma quello non è il tuo giocattolo preferito?” e lei mi ha detto che era proprio per quello che me lo dava, era la cosa più cara che aveva.
Capisci? Era arrivata in classe arrabbiata col mondo per le sue disgrazie e ha compiuto un vero gesto di amore, cioè donarmi una parte preziosa di sé. Quel gesto voleva dire che A. si era aperta alla vita, grazie all’amore. Quando ci penso ancora mi commuovo.
Aiutare i bambini a esprimere le emozioni e a riconoscerle, è il primo passo che ogni insegnante dovrebbe compiere.
Che scena da film, bellissima! Senti, nell’ultima domanda cerco sempre di farmi dare dei consigli pratici dai miei ospiti. E quindi ti chiedo: se dovessi indicare ai genitori tre errori tipici da non fare assolutamente nella gestione dei figli in età da elementari, quali sarebbero questi errori secondo la tua esperienza?
Per prima cosa gli direi non date imposizioni rigide ai vostri figli ma domande che li spingono a interrogarsi su quello che vogliono. Non dite ai vostri figli “Fai questo e quello” ma piuttosto “Cosa vorresti fare?”.
Un altro errore è di mettersi troppo al centro come genitori e dimenticarsi di chiedere al bambino come sta. Abbiamo mille ansie come adulti, ed è facile cadere nell’errore di voler evitare al bambino di soffrire ma privandolo di tante cose.
Invece dobbiamo far provare al bambino le cose e chiedergli come è stata l’esperienza, perché chiedere ai bambini come stanno o si sentono dopo aver provato qualcosa, vuol dire attivare il loro cervello il riconoscimento delle emozioni, questa è la vera educazione emotiva.
Quando ad esempio faccio fare una competizione in classe, io metto sul piatto prima le emozioni che potrebbero provare i bambini. Cioè dico loro di ricordarsi che è un gioco, che il fine è divertirsi e stare bene, e che loro devono imparare a guardare le loro emozioni – di rabbia, pianto, frustrazione perché hanno perso – sapendo che loro non sono quelle emozioni.
Ebbene, è meraviglioso vedere come i bambini riescono a capire tutto ciò, applaudono chi vince e si abbracciano con chi perde. Questo è solo uno dei piccoli miracoli che avvengono quando rendiamo i bambini consapevoli delle loro emozioni.