Ritrovare la connessione con se stessi e abbracciare la solitudine

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La connessione non si può vedere o toccare ma quando manca ce ne accorgiamo immediatamente, soprattutto nella relazione con noi stessi prima e con l’altra persona poi. Ma come fare per ritrovare la connessione con se stessi e non cadere come sempre nelle trappole dell’ego?

Ci sono momenti della tua vita in cui ti ritrovi a essere solo. O almeno è così che ti percepisci tu. E, se ci fai caso, sono i momenti più difficili che ti puoi ricordare.

Ti senti solo quando qualcuno ti lascia; ti senti solo quando qualcuno muore; ti senti solo quando non hai supporto da chi ti circonda, quando non ti senti compreso, quando ti senti osteggiato, isolato, perduto.

In ognuno di questi momenti di fatto hai perso la connessione con l’esterno, ma ciò che è più grave è che hai perso la connessione con te stesso.

È così, e prima lo realizzi profondamente, prima riuscirai ad attraversare gli spazi di solitudine con i giusti strumenti.

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Sentirsi soli può aiutare a ritrovare la connessione con se stessi

Quando ci sentiamo soli è perché ci siamo “abbandonati” da soli, abbiamo perso la connessione con noi stessi.

Siamo isolati.

È un concetto che merita di essere spiegato con calma e dall’inizio, perché comprenderlo può davvero fare moltissima differenza in una realtà, la nostra, fatta di persone che perlopiù vivono da sole (è di poche settimane fa il dato che a Milano le famiglie composte da una sola persona sono più numerose di quelle composte da due o più persone, tanto per fare un esempio, o che il numero dei bambini in città è inferiore a quello dei cani).

Tutto nasce da dove partiamo per cercare di colmare le nostre ferite emozionali.

Uso non a caso la parola “colmare” invece di “guarire” perché è ciò che maggiormente siamo portati a fare, quando la ferita emozionale si manifesta appunto con una sensazione di vuoto.

Nel nostro lessico le parole vuoto e solitudine spesso viaggiano a braccetto, perché le utilizziamo per descrivere quella sensazione di disconnessione che tanto cerchiamo di evitare.

Quindi ricapitoliamo insieme, fai attenzione ai termini che ho usato fino a qui: solitudine, vuoto, disconnessione, evitare, isolato.

Tutte queste parole ci servono per descrivere uno spazio in cui ci troviamo in determinati momenti.

Attraversare la solitudine come processo di consapevolezza

Presta attenzione anche al fatto che non sto dicendo “quando siamo soli” o “quando ci sentiamo soli” ma parlo non a caso di uno “spazio che attraversiamo”.

Perché uso questa terminologia? 

Non lo faccio senza motivo, e ci tengo a spiegarlo perché reputo importante che sia chiaro a tutti: uso la terminologia dello “spazio da attraversare” perché uno dei dettagli fondamentali in un processo di consapevolezza è comprendere che tu non “sei” quella sensazione, non “sei” quel vuoto, o quella paura, o quell’isolamento; tu ne stai solamente facendo esperienza, o meglio stai “attraversando” quello spazio in cui quella determinata sensazione esiste.

Prova a immaginare di camminare attraverso due getti di aria calda: sentirai il calore attraversarti, ma continuando a camminare ne uscirai, e tornerai alla tua temperatura naturale. Oppure pensa di attraversare una cascata d’acqua, di camminarci attraverso, ti bagnerai e sentirai il freddo dell’acqua ma uscendone ti potrai di nuovo sentire asciutto.

Ecco, quando diciamo “io sono solo” è come se fossimo sotto quella cascata e dicessimo “io sono acqua”.

Una cosa assurda, giusto? Tutti comprendiamo che stiamo solo attraversando la cascata e che basta fare un passo per non sentirci più bagnati. 

Eppure, al contrario, quando ci capita di “attraversare” un’emozione o una sensazione, pensiamo sempre di essere quella sensazione e perdiamo la percezione di chi siamo.

Come riconoscere ed evitare relazioni disfunzionali

La verità è che la maggior parte di noi non è in connessione con chi veramente è da talmente tanto tempo da essersi completamente dimenticato chi è, ed essersi assuefatto a percepire se stesso attraverso le sensazioni.

Ma le sensazioni sono impermanenti: a volte siamo felici, a volte tristi, a volte allegri, a volte disperati. Ed ecco perché quasi la totalità del genere umano passa costantemente da uno stato emotivo all’altro, per poi cercare disperatamente qualcuno che fermi questa giostra e ci faccia scendere.

Ma come sempre ti dico che nessuno può farlo dall’esterno. Lo ripeto, anche a rischio di essere noiosa o infastidire qualcuno: nessuno può farlo dall’esterno.

Ma allora come mai nelle relazioni si continua a perpetuare l’idea folle che qualcuno arriverà a salvarci, a renderci felici, ad amarci, a cancellare la nostra solitudine?

Perché non abbiamo alcuna coscienza del fatto che così non funziona e anche dopo anni e anni di relazioni dolorose e distruttive continuiamo a sperare che qualcuno sia la nostra bacchetta magica, il nostro “abracadabra”?

Qualche giorno fa ero al telefono con una mia amica che non sentivo da un po’. Ci conosciamo da tanti anni, eravamo ragazze e abbiamo nel corso degli anni attraversato tutte le fasi delle nostre vite restando in contatto, anche se non sempre vicine fisicamente dal momento che abitiamo in due città diverse.

A un certo punto, sentendo la sua voce un po’ triste, le ho chiesto come stava e lei mi ha risposto che si sentiva sola e che avrebbe avuto tanto bisogno di un uomo vicino che la abbracciasse e la facesse sentire meglio.

In una frazione di secondo ho realizzato che nel corso dei 30 anni della nostra amicizia lei mi aveva ripetuto quella stessa frase moltissime volte. Più o meno in concomitanza con l’inizio di relazioni disfunzionali con uomini non disponibili.

E così ho scelto di non mentire, di non risponderle “ma sì dai, vedrai che qualcuno arriverà prima o poi”, ma anzi di farle da specchio facendole vedere che quel suo vuoto, quella sensazione, la accompagnava da tempo immemore e che in quel momento stava cercando nuovamente all’esterno ciò che poteva darsi solamente da sola: quell’abbraccio.

Abbraccia te stesso e smetti di attivare relazioni disfunzionali

Attenzione, non sto dicendo che non sia una cosa piacevole o anche bellissima, abbracciare qualcuno o farsi abbracciare. Non sto dicendo che non si vivano momenti di grande gioia in compagnia di altre persone e che solo da soli si può stare bene.

Niente del genere, sto dicendo una cosa molto specifica e cioè che se si parte da una richiesta di “bisogno”, se si parte da una situazione di “vuoto” o di “mancanza” percepita, non è possibile trovare all’esterno la soluzione a quello stato, anzi, proprio a causa di quella frequenza di paura e solitudine che ci muove verso l’altro, andremo a connetterci con altre persone “in richiesta”, creando così una relazione disfunzionale che ci porterà una moltiplicazione dei nostri problemi, delle nostre solitudini, delle nostre paure. 

Due solitudini sommate non fanno una “non solitudine”, ma moltiplicano esponenzialmente la solitudine di entrambi… amplificandola.

Ormai non siete più dei ragazzini, siete delle persone adulte e non potete permettervi di vivere senza pensare alle conseguenze delle vostre azioni.

Ogni azione comprende una responsabilità, e continuare ad attivare relazioni disfunzionali all’interno delle quali spesso vengono alla luce anche dei figli, è davvero troppo doloroso per non voler comprendere che si può e si deve attuare un cambiamento profondo. Questi sono concetti fondamentali da capire se si desidera ritrovare la connessione con se stessi.

In queste relazioni deliranti infatti, tutto diventa frutto di un ragionamento di mancanza, anche e soprattutto i figli.

L’abbraccio di due persone che prima di tutto hanno abbracciato se stesse è fatto di una qualità molto diversa da quella che si verifica fra due persone che stanno chiedendosi reciprocamente di essere salvate.

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Superare gli ostacoli dell’ego e connettersi con se stessi

In questo ultimo caso chi si abbraccia non siamo realmente noi, ma sono i due personaggi e cioè i due ego, che per sopravvivere cercano sempre di creare uno stato di sofferenza, di dramma, di patimento. 

L’ego vive di alti e bassi, di illusione e disillusione, di stati di picco e di abissi in cui cerca di trascinarci. 

L’ego è uno degli ostacoli più grandi per ritrovare la connessione con se stessi: Ci stanca, ci sfinisce, ci indebolisce, e in questo nostro scomparire ecco che cresce, si nutre e prospera. Quando ci sentiamo stanchi, sfiniti, sopraffatti, abbiamo ceduto le redini delle nostre relazioni al nostro ego che interagisce al nostro posto, come un vero e proprio personaggio o appunto “alter ego”, che ci soppianta.

Vi parlo di questo perché queste sono le radici di ogni relazione umana, a prescindere se si voglia ritrovare la connessione con se stessi o no.

Chiunque vi parli di come relazionarvi con il vostro partner o di come ottenere questo o quell’altro, vi sta parlando dei rami, dei frutti dell’albero delle relazioni.

Ma ciò che è davvero importante sono i semi che piantate, le radici di quell’albero, il terreno in cui decidete di farlo crescere.

Non c’è modo di guarire una pianta partendo dai suoi frutti. Se vi concentrate su quelli, e ogni giorno litigate, discutete, cercate di cambiare un melo in un pero, semplicemente imponendogli di essere qualcos’altro, fallirete.

Concentratevi su di voi, sulle vostre radici. Quando incontrate l’altro immaginate che sia come la terra: guardate se è fertile, o se invece è secca, indurita, sterile.

Non potete piantare le radici del vostro alberto in una terra inadatta e poi lamentarvi che invece di un quercia possente vi ritrovate con un esile arbusto rinsecchito.

Ciò che sei davvero non può essere toccato

La metafora dell’albero credo renda bene l’idea e vi aiuta a visualizzare la vostra relazione al di fuori degli schemi mentali in cui spesso siete incastrati.

Quando parlo con qualcuno che vive una relazione dolorosa, la prima cosa che noto è che parla ossessivamente dell’altra persona, di come non si comporta bene, dei suoi difetti e di come dovrebbe fare per cambiare, dei suoi margini di miglioramento.

Spesso accade che l’ego si travesta da “innamorato premuroso” e dia suggerimenti per “il bene dell’altro”, mettendosi sul pulpito non si sa bene perché, visto che nella relazione si vive in due allo stesso livello.

Questi sono i casi più impegnativi con cui comunicare perché le persone coinvolte sono davvero convinte che il problema sia tutto dell’altra persona. E questo se ci pensate è davvero funzionale al rifiuto e alla paura di consapevolizzare la propria storia, il proprio ego, il proprio personaggio.

E sono anche le situazioni in cui ogni connessione sembra essere persa e la solitudine appare immensa.

Anche questa, come le altre, è solo un’illusione.

Ciò che davvero siamo non può essere toccato, ed è l’unica cosa che sfugge alla legge dell’impermanenza

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