Si dice che ogni cosa che accade nell’Universo nasce da un’intenzione. Ogni singola cosa. Miliardi di esseri umani che sprigionano nell’etere i propri desideri, le proprie voglie e le proprie speranze. Mi ricordo un film di qualche anno fa con protagonista l’attore americano Jim Carrey. In italiano in film si intitola Una settimana da Dio. Jim Carrey interpreta una persona che non crede a nulla, tanto meno in Dio, a cui tutto va sempre storto, che si trova per una specie di “magia” a vestire i panni del Padreterno che ha tanto criticato. Ebbene, Jim si rende presto conto che una delle difficoltà maggiori di essere nel ruolo di Dio è quello di ascoltare tutte le voci di tutte le preghiere e i pensieri che gli esseri umani rivolgono al cielo ogni singolo istante. Un’impresa impossibile che lo travolge nel modo più impensato: per liberarsi delle richieste decide di rispondere “sì” a tutti, causando una confusione incredibile e danni irreparabili. Eh sì, perché le nostre intenzioni non sono sempre così innocenti e volte a fin di bene. Spesso pur di raggiungere i nostri obiettivi siamo capaci di compiere azioni di ogni genere. Anche e soprattutto nelle relazioni con gli altri.
Capiamoci bene: non è che siamo tutti cattivi, anzi. La larga parte di noi è convinta di essere completamente buona, di essere la parte lesa o comunque di agire in nome dell’amore.
Pensate che persino chi compie violenza su una donna crede di farlo perché “la ama”. E incredibilmente anche le vittime di tale violenza tendono a giustificare chi la compie dicendo “mi ama troppo”.
Spesso quando incontriamo qualcuno ci interroghiamo sulle sue intenzioni. Ci chiediamo che intenzioni abbia con noi, o che intenzioni ha nei confronti del suo futuro e della vita in generale.
Molto più raramente ci chiediamo che intenzioni profonde abbiamo noi nei confronti di questa persona, partendo dall’assunto che le nostre intenzioni sono sempre le migliori.
Eppure quando iniziamo una conoscenza il più delle volte anche noi abbiamo intenzioni che poco hanno a che fare con l’amore, ma più con il bisogno di sicurezza, con la volontà di cambiare la persona che abbiamo di fronte (come se potessimo davvero farlo poi), con l’intenzione di creare un futuro più che un presente, che abbiamo immaginato e creato da soli, nel quale l’altro viene inserito come una statuina nel presepe a Natale.
“Che intenzioni ho?”, questa sì che sarebbe una bella domanda da farsi quando si inizia a conoscere un’altra persona.
“Che intenzioni ho?”, verso me stesso prima di tutto, e verso l’altro di conseguenza. “Che intenzioni davvero ho verso questa relazione, perchè la sto iniziando, che cosa mi aspetto?”.
Sono domande fondamentali ma ancora più fondamentale sarebbe rispondersi da un punto di verità profonda. Ed è questo il secondo aspetto più complesso.
Sì, perché la risposta non può arrivare dalla mente, o da una conversazione con un’amica, o tanto meno dalle nostre azioni (che sono ingiudicabili in quanto azioni ma valutabili solo dall’energia che contengono e da dove si sono generate).
La risposta incredibilmente può arrivare solo dal silenzio. Da quel tipo di silenzio che si crea intorno e dentro di noi quando usciamo dal brusìo mentale ed entriamo in uno spazio di ascolto attento e vigile delle lievi sfumature del nostro agire profondo.
Cerco di spiegarmi meglio: in questi anni in cui mi sono occupata della mia personale crescita ed evoluzione ho attraversato, e ancora attraverso, varie fasi. Alcune sono di vero avanzamento, altre di regressione. Altre ancora di apparente stallo che però spesso si rivela uno spazio importante, nel quale mi viene data l’occasione di “accorgermi” di me stessa, di osservarmi, di sentirmi immersa nelle emozioni e di staccarmi da esse in modo da comprendere che io non sono quelle emozioni ma che sto permettendo a quelle emozioni di muovermi.
Credo sia il passo successivo dell’accorgersi di quando siamo governati dai pensieri. Si può dire che i pensieri ci governano in modo più grezzo, più rudimentale. È piuttosto semplice accorgersi di come funzionano: spesso sono meccanici, usano il dialogo interno, le immagini mentali, seguono anche schemi precisi e ripetitivi.
Ma le emozioni, quelle sono più sottili e sofisticate. Si annidano lievi, a volte, eppure così potenti. A distanza di tempo ci accorgiamo di averne una nascosta lì, da qualche parte dentro di noi, silente, mimetizzata dietro una delle nostre reazioni quotidiane. Per mille volte abbiamo compiuto la stessa azione senza averla vista ma poi un giorno, grazie a una sollecitazione particolare, la vediamo.
E in quel momento è fondamentale essere presenti, per non perdercela. Perché se ce la perdiamo possono volerci anni a volte per tornare a identificarla. Quando siamo presenti e incontriamo certe “emozioni guida” che si nascondono in qualche anfratto del nostro essere (non dico “della mente” perché spesso non stanno lì, più sovente le possiamo trovare in qualche parte del corpo), abbiamo l’occasione preziosa di guarirle.
Ma perché è così importante vedere e guarire queste emozioni? È molto semplice: perché se non le vediamo e non le guariamo da soli ricompariranno, questa volta in modo esplicito e lampante, di fronte a chi si relazionerà con noi, e chiederemo all’altra persona di occuparsene al nostro posto.
È inutile che ti dica che questo è un meccanismo che porta a molti dei problemi che ci troviamo a fronteggiare in una relazione, vero?
“Che intenzioni ho?”, una domanda bellissima da farsi… così potente. Mi viene da pensare quanto della qualità della nostra vita dipenda dalla nostra capacità di rispondere a noi stessi con onestà.
Nella mente umana esiste una fissazione per le strutture, perché grazie a esse ci sentiamo sicuri, sappiamo “dove siamo”, a che punto ci troviamo in una relazione. Pare che la ragione sia da ricercarsi in questo fatto: restiamo protetti dal ventre materno per nove mesi, circondati da una struttura che ci protegge, e questo ci fa in qualche modo essere alla ricerca di quella protezione per il resto della vita.
Quando si ama, si vuole creare immediatamente una relazione! Sposarsi, creare un condizionamento, stipulare un contratto, sapere “dove ci si trova” e in quale relazione. Si vuole avere un’identità, un “Io sono questo”, non si vuole rimanere nell’incertezza. Ma la vita non è certa, mai.
Ricordo che quando sono stata lasciata dal mio compagno, nell’evento più trasformativo della mia esistenza (quello che mi ha permesso di andare in profondità come mai avevo fatto prima nel viaggio dentro di me), andai dal mio maestro e gli dissi: “Ma io adesso chi sono? Cosa dico alla gente? Io non sono più fidanzata, non sono più sposata. Io non voglio Essere Single”. E lui mi rispose: “Tu sei. E non c’è nulla da aggiungere”.
In quel momento non capivo così bene, il dolore dello strappo dalla mia identità era ancora così vivo e pulsante da annebbiare tutto il resto. Ma poi compresi che quella era, ed è, l’unica certezza: noi siamo. E siamo ciò che siamo indipendentemente da “con chi” ci relazioniamo, indipendentemente dal tipo di struttura o “casetta” che costruiamo intorno a noi e che spesso teniamo in piedi facendo acrobazie tali che nemmeno al circo!
Se in una relazione ci rendiamo conto che la struttura per noi è più importante della sostanza della relazione stessa, allora dobbiamo sapere che ci siamo molto allontanati dallo spazio d’amore e che ci serve tornare al centro, in silenzio, e metterci in ascolto.
Attenzione però: non è solo quando siamo in una relazione che ci allontaniamo dal nostro centro. Si potrebbe pensare che nei periodi in cui si vive da soli, si coglie l’occasione per stare davvero con noi stessi e fare percorsi di amore e accoglienza profondi. Ma spesso non è così, anzi. La maggior parte di noi quando è sola va in ansia, inizia a cercare distrazioni continue, si circonda di altre persone, fa di tutto per non sentire, per non ascoltarsi, quasi come se stare nel silenzio sia la cosa più spaventosa di tutte. In realtà le persone che trovano il proprio centro sono quasi sempre solitarie, perché avendo trovato loro stesse, non hanno più bisogno degli altri, ma possono scegliere con chi relazionarsi e quando farlo.
Dal mio punto di osservazione posso dire che ciò che a me è utile per ascoltare la mia voce è rallentare. Le nostre giornate a volte sono così rapide e veloci che non esiste il tempo per ascoltarsi.
Rallentare le azioni, i gesti quotidiani, a volte anche i movimenti. Fermarsi, anche per pochi secondi, osservare un oggetto, un riflesso, un momento, è una sorta di meditazione che abitua la nostra mente a fermare il rumore incessante dei pensieri. E in quel silenzio da qualche parte dentro di te emergerà una voce.
Giacomo Leopardi lo diceva con parole immortali ne L’infinito, uno dei componimenti poetici più musicali della storia:
“E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno […]”.
Solo nell’infinito silenzio della nostra anima possiamo sentire il suono della nostra voce