Finora qui su “Heisenberg” mi sono occupato di scienza pura, nel senso di fisica quantistica, psicologia, scienze della mente e soprattutto le neuroscienze. Ma c’è una forma di sapere antica come l’uomo che non ho ancora ospitato, la Filosofia.
Ho deciso di farlo a modo mio, trovando un modo diverso di vedere le cose.
E un modo diverso di vedere la filosofia lo ha trovato la mia ospite, Benedetta Santini, insegnante bresciana, filosofa e psicologa che ha aperto una pagina Instagram (@filosofiaecaffeina) che in breve ha raggiunto i 138.000 follower, e lo dico con piacere perché per una che parla di filosofia con semplicità e un sorriso contagioso ma senza banalizzare mai mi sembra un grande risultato.
Recentemente ha pubblicato anche un bellissimo libro per Mondadori, Platone c’ho l’ansia, che vi invito a leggere perché vi troverete tantissime risposte.
Anche io e lei cercheremo delle risposte nel sapere dei filosofi antichi, perché paradossalmente per quanto la conoscenza della mente vada avanti, quando si tratta di ragionare sul nostro modo di raggiungere la felicità, la saggezza dei vari Epicuro, Aristotele, Seneca o Marco Aurelio, solo per citarne alcuni, resta sempre insuperata.
E allora, cerchiamo di capire come trovare la forza e la fiducia in noi, la strada verso il nostro destino, grazie alla filosofia.
Fate tesoro di ogni pensiero.
Il tuo posto nel mondo
Essere filosofi vuol dire essere persone che si sentono fuori posto, dal greco atopos. Questo è l’interessantissimo punto di vista con cui si apre l’Introduzione del tuo libro Platone c’ho l’ansia.
Allora Benedetta, può sembrare una provocazione, ma se ognuno di noi almeno una volta nella vita ha sentito una spinta irrefrenabile per trovare il proprio posto nel mondo, vuol dire che tutti abbiamo fatto esperienza della filosofia?
Lo dico ancora meglio, fare filosofia è la cosa più democratica del mondo, nel senso che le intuizioni nella Fisica le possono avere solo i fisici, ma le intuizioni che ci aiutano a vivere meglio, anche se non hanno la profondità dei grandi filosofi, hanno comunque la loro dignità? Tu come la vedi?
Io faccio una distinzione.
Non ha la mia simpatia chi dice “Anch’io sono un po’ filosofo” ma lo dice pigramente, con leggerezza.
Apprezzo invece chi dice la stessa cosa ma con un pizzico di dolore. È vero che tutti prima o poi ci sentiamo fuori posto nel mondo e tutti ci poniamo le domande fondamentali che ci fanno soffrire.
Ma è sufficiente questo dolore? No.
Il sentirsi fuori posto è come una chiamata per trovare il tuo posto nel mondo, la strada giusta, o almeno un senso a questa tua esperienza.
Se tu però a questa chiamata non rispondi non puoi diventare filosofo. Ti rimangono i tuoi punti di domanda, le tue insoddisfazioni, ma non te ne fai nulla.
La filosofia non è una cosa leggera, è una cosa pesante, le cose pesanti vanno sul fondo e creano le fondamenta.
Poi tu mi chiedi se le intuizioni di ognuno hanno pari dignità filosofica.
La filosofia la possono fare tutti mentre la fisica no? Chiediamoci, allora, cosa vuol dire “fare filosofia”?
Se fare filosofia significa avere intuizioni sulla struttura della realtà, allora non tutti possono essere Kant.
Se invece significa interrogarsi sul significato del proprio dolore e sulla propria esistenza allora tutti possono fare filosofia. O meglio, tutti vorrebbero farlo ma non tutti vogliono farlo…
Perché non vogliono farlo secondo te?
Guarda, la mia esperienza mi ha insegnato che ci si ferma davanti alla filosofia per gli stessi motivi per cui ci si ferma davanti alla psicoterapia.
Ci si ferma perché fa troppo male, non si trova la forza.
Noi ci costruiamo delle illusioni nella nostra mente che ci fanno stare un po’ meglio, ci anestetizzano.
Nel momento in cui qualcuno smonta le favole che ci siamo raccontati per rendere la realtà accettabile, allora ci ribelliamo, scappiamo, neghiamo.
Sono guarda caso le reazioni che avevano gli interlocutori di Socrate, perché non accettavano come lui li metteva a nudo davanti alla verità.
Ma la stessa cosa avviene nella psicoterapia, il paziente rischia di mollare quando non regge emotivamente le rivelazioni su di sé.
Si pensa che la filosofia venga mollata perché è difficile cognitivamente, in realtà quello che vedo è che si rinuncia alla filosofia perché è difficile sostenerla a livello emotivo.
È normale avere paura della libertà
Il tuo libro affronta 8 filosofi, che dovrebbero aiutarci a trovare il nostro posto nel mondo. Sono: Talete, Socrate, Platone, Aristotele, Seneca, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche.
Perché questi otto? In estrema sintesi cosa ti ha insegnato ciascuno di loro?
Perché loro? Ho scelto di pancia, questi otto sono i filosofi che vado a cercare quando io mi sento fuori posto. E infatti in questo libro ho messo a nudo molto di me.
Cosa mi ha insegnato ciascuno di loro?
Allora, Talete mi ha insegnato la fiducia nel fatto che la realtà anche se appare piatta è invece sempre ricca di significato.
Di solito a Talete i libri di scuola dedicano una paginetta, è quello del “Tutto scorre” e basta. E invece la forza di Talete è che ha dietro un sacco di storia e di profondità di pensiero che non conosciamo.
Socrate mi ha insegnato il senso che sta dietro il dolore e la paura. La sua città Atene lo ha condannato a morte, e lui ha fatto la scelta radicale di accettare questa morte per non venir meno alle sue certezze. Questa scelta ha provocato un crollo delle certezze nei suoi discepoli.
Siamo sempre a contatto con dolore e paura, ma fanno un po’ più male quando sembrano assurdi, invece in Socrate trovano un senso nella sua fedeltà alla sua vocazione, alla sua missione.
Platone mi ha insegnato la resistenza della filosofia, il volerla rendere una cosa concreta che possa cambiare la vita degli uomini.
Aristotele, almeno secondo la sua biografia che lo descrive come un uomo assorto nei suoi studi, mi ha insegnato a starmene nel mio mondo per trovare la serenità. E poi sposo il concetto di felicità di Aristotele, cioè il poter esercitare liberamente il proprio ingegno.
Seneca mi ha insegnato come portare nella vita di ogni giorno un po’ di saggezza con le sue riflessioni tratte ad esempio dalle Lettere morali a Lucilio.
Fichte, non voglio sembrare esagerata, ma mi ha insegnato il senso più alto della vita. La sua idea che tutti insieme contribuiamo alla grande costruzione della storia del mondo, e che se tu poni un mattone in questa grande costruzione non morirai mai perché la tua opera continua a vivere in quanto non è mai conclusa, questa sua idea mi fa vivere come se il senso del mondo fosse questo.
Schopenhauer mi ha insegnato la profonda compassione umana. Lui diceva che gli scritti degli antichi sono come le lettere al fronte per i soldati, ecco fuor di metafora quando tu sei qui che hai toccato il fondo nella guerra con l’esistenza Schopenhauer è come una lettera da casa che ti scalda il cuore senza facili illusioni, ti da la forza.
Nietzsche ti insegna la durezza della libertà: quando tu ti liberi da meccanismi oppressivi o schemi di pensiero cosa fai? È tutto facile e bello? No, molto spesso hai paura, la libertà ti espone a una incertezza incredibile, e finisce che o per paura o perché pensi di aver sbagliato torni indietro.
Nietzsche ti insegna che è normale avere paura della libertà, quando ti sei ribellato ti ritrovi nel deserto da solo, ma quella non è la meta è solo una fase da superare per la tua evoluzione. Questo è stato per me il suo più grande insegnamento.
Gli ingredienti della felicità
In questa rubrica di interviste scientifiche abbiamo ospitato spesso neuroscienziati, e in effetti la filosofia della scienza e della mente, oggi ha un grande debito nei confronti delle neuroscienze.
Eppure quando si tratta di ragionare sull’arte di vivere bene per raggiungere la felicità, torniamo sempre ai classici della filosofia, Socrate, Epicuro, Seneca e gli stoici, Aristotele… Oppure cerchiamo conforto nella saggezza orientale.
Vuol dire che gli ingredienti di quella che i greci chiamavano “eudemonìa” – la felicità come scopo della vita – sono sempre gli stessi malgrado il progresso? E quali sono questi ingredienti immortali per te?
Condivido la premessa. Per capire il nostro mondo torniamo sempre agli antichi.
Ti racconto un aneddoto, ho letto ai miei studenti al liceo un pezzo del De brevitate vitae di Seneca e i ragazzi pensavano fosse qualcosa di contemporaneo.
Vai in vacanza in un posto ma poi non ti piace, poi però non vuoi tornare, cerchi qualcosa di nuovo ma non ti va bene mai niente, sembrano gli stress della vita di oggi e invece è la Roma del I secolo d.C., quindi il progresso e la tecnologia non ha cambiato di molto la nostra testa.
Se invece mi chiedi quali sono gli ingredienti eterni della felicità provo a farti la mia formula.
Primo serve il silenzio, o lo spazio per creare. Perché la creatività è il modo in cui noi proviamo a ritrovare ciò che ci manca.
Se crei qualcosa è perché nel mondo esterno quel qualcosa non c’è, e la sua mancanza ti crea dolore. La creatività è la risposta a un nostro dolore.
Il secondo ingrediente è la possibilità di esercitare liberamente il proprio ingegno, perché se ci sentiamo compressi da schemi rigidi imposti dalla famiglia, la società ecc. come possiamo essere liberi?
Altro componente fondamentale per la felicità è l’amore, quello che diamo e quello che riceviamo, a qualcosa – una vocazione, un impegno di vita – o a qualcuno – all’amato, ma anche dare amore nell’amicizia l’amore è fondamentale.
L’ultimo ingrediente che manca a moltissimi per essere felici, e che richiede anche una grande fortuna, è la vocazione, senza la passione per quello che fai non ha senso la tua vita. Tutti ce l’abbiamo da qualche parte, solo che crescendo la dimentichiamo.
La strada giusta
In un post sulla tua pagina Instagram @filosofiaecaffeina spieghi la ragione della dedica del tuo libro, che dice “A chi ha una fiamma dentro di sé che a volte brucia da far male, ma illumina la via.”
Può crollare il tuo labirinto di pensieri ma la fiamma non si deve spegnere mai, questo è il tuo augurio.
Questa fiamma ha a che fare con la comprensione di ciò che più di tutto dà un senso alla tua vita.
Ti faccio una domanda personale ma dal valore universale: tu come l’hai trovato questo tuo destino? E, dopo tutti gli errori e i successi ottenuti, che consiglio puoi dare ai nostri lettori su come imparare a riconoscere la propria vocazione?
Devo dire che ho avuto una fortuna sfacciata nel trovare la mia vocazione.
Da piccola, a fine anni Novanta guardavo un telefilm che si chiamava Streghe e raccontava le avventure di tre sorelle in possesso di un libro delle ombre.
Volevo imitarle e così andai nella biblioteca di mia madre e presi un libro con un simbolo strano sulla copertina. A 20 anni avrei scoperto che era la Storia della filosofia occidentale di Russell.
Ma intanto a 13 anni, facendo l’open day per scegliere le scuole superiori, ricordo che sono entrata nello stand del liceo classico e lì ho sentito un calore all’altezza del cuore, la fiamma di cui parlo nel libro e mi sono detta non posso fare nient’altro che questo.
Spettacolo! Ma chi non ha la tua stessa fortuna come fa a trovare la sua vocazione?
Secondo me ci si può affidare a una cosa che io chiamo “incoscienza selettiva”.
Tu puoi essere una persona molto coscienziosa, rispettare sempre le regole, ma magari ti capita di avere un desiderio forte di fare qualcosa fuori dai tuoi schemi. Per esempio andare in vacanza in un posto diverso dal solito, fare un corso di teatro, qualcosa che in teoria non hai tempo di fare, ti sembra da incoscienti, ma scegli di farla, la selezioni fra tante opzioni perché in un certo senso ti chiama, e ti chiedi dove mi porterebbe?
In questi casi il mio consiglio è assecondate queste rotture di schemi, perché una volta che cominci ad aprire strade poi qualcosa dentro di te ti guida verso la strada giusta.
Credo sia sbagliato credere che il nostro destino sia la risposta a una vocazione importante, devo diventare un attore, un calciatore, uno scrittore; a volte il destino si annida nelle vocazioni che ti capitano per caso, quelle che scopri per curiosità e poi ti cambiano la vita.
Essere liberi dalle etichette
Per concludere, nel primo capitolo del tuo libro dedicato a Talete accenni a due concetti della psicologia secondo me molto utili per ragionare su come liberarci dalle etichette che ci appiccicano gli altri addosso.
Uno è il concetto della “conferma comportamentale” e l’altro è quello della “autoespressione”.
Ce li vuoi spiegare con degli esempi concreti?
Allora la “conferma comportamentale” riguarda l’interazione fra ciò che crediamo e ciò che facciamo. Se io non riesco a capire come mi sento, posso desumerlo dal mio comportamento e anche dal comportamento degli altri.
Nel libro faccio l’esempio di un disoccupato che interagisce inizialmente con gli altri senza vergogna, viene trattato come se valesse di meno perché senza lavoro, questo comportamento altrui lo spinge a chiudersi, lui si vede chiuso e pensa: “Sono chiuso ed è per questo che mi vergogno”.
Quindi la conferma comportamentale fa sì che noi rispondiamo alle etichette che gli altri ci hanno attaccato addosso, e il comportamento modifica il nostro pensiero.
L’autoespressione è speculare a questo meccanismo.
Noi non conosciamo ogni aspetto di noi stessi e mostriamo agli altri quelle parti di noi che riteniamo belle e che vogliamo far conoscere.
Se io penso di essere una persona gentile e voglio farmi conoscere come tale, e non solo come un timido che è l’etichetta che mi hanno attaccato gli altri, cerco di esprimere la mia gentilezza con una serie di azioni, e così gli altri vedendo il mio comportamento cominceranno a cambiare l’etichetta con cui mi avevano catalogato.
Stessa cosa con la forza, la fiducia, la simpatia, e così via dicendo…
Le etichette non sono sotto il nostro controllo ma sono il frutto di un balletto di ruoli sociali molto complesso.