Accettare se stessi o meno dipende dalla risposta che diamo ad una domanda che si può definire karmica: ma noi ce la possiamo fare? Possiamo davvero vincere questa folle corsa che a volte sembra essere la nostra esistenza e raggiungere la felicità?
“Solamente amando e accettando te stesso potrai amare ed essere amato da qualcun altro”.
Questa affermazione l’avrai sentita o letta migliaia di volte.
Fa parte di quelle frasi filosofico–spirituali di cui sono pieni i libri cosiddetti “new age” e che pullulano sui social sotto forma di citazioni di uno o dell’altro rispettabilissimo guru.
Eppure, tra il dire e il fare, mai come in questo caso, c’è di mezzo il mare.
È possibile raggiungere la felicità accettando se stessi?
Perché per quanto ci ostiniamo a dire “io mi accetto così come sono” o “io ti accetto così come sei”, la verità è che non lo facciamo quasi mai e che siamo spessissimo in opposizione sia con quello che siamo, sia con quello che sono gli altri.
Il che sarebbe quasi comico se non fosse l’asse portante delle difficoltà in cui ci dibattiamo ogni giorno.
Funziona così: noi siamo i creatori della nostra realtà.
Per dare un’immagine grafica della nostra esistenza possiamo raffigurarci come tante persone con un proiettore al posto della testa, che girano per il mondo proiettando la propria realtà personale all’esterno, il proprio film, sullo schermo della realtà, che quindi non esiste.
E su questa teoria, come ripetiamo da tempo su “Heisenberg“, sono d’accordo più o meno tutte le correnti di pensiero che non prevedano un Dio onnisciente che abbia già tracciato, almeno in parte, il nostro destino e al quale affidarsi per avere una vita appunto in “grazia di Dio”, attraverso la preghiera o nel rispetto dei comandamenti e dei precetti che ogni religione che si rispetti impone ai fedeli.
Partendo dalla PNL (Programmazione Neuro Linguistica) che ha come frase chiave “La mappa non è il territorio”, intendendo con questo dire che ognuno di noi ha una sua mappa personale per muoversi nel territorio comune a tutti, passando dalla teoria quantistica in cui si afferma che persino l’osservatore influenza il risultato dell’esperimento e che quindi la nostra attitudine e i nostri pensieri hanno un’energia capace di cambiare il risultato delle nostre azioni, per arrivare alle grandi figure spirituali del passato e del presente… tutti insomma, sono concordi nel dire che noi influenziamo la nostra realtà in un modo o nell’altro.
In questa visione del mondo l’essere umano viene posto al centro di tutto, in una sorta di antropocentrismo moderno, ma dandogli (dandoci, a noi) anche, e qui sta l’inghippo, la responsabilità di ciò che gli accade, e quindi va da sé, anche la necessità di essere ben sveglio e consapevole di quello che sta facendo, pensando, e quindi a cascata, creando.
Già così il macigno della responsabilità comincia a pesarmi sulle spalle.
Quasi quasi capisco chi sceglie di spostare questo peso su un’entità esterna e infallibile a cui delegare oneri e onori di tutto ciò che gli accade: Dio, appunto.
Eh sì perché, non so tu che leggi, ma io mica sono sempre stata così presente e consapevole ogni istante della mia vita.
Ho vissuto decenni di pura inconsapevolezza inframmezzata da momenti di lucidità e presenza in cui ciò che vedevo mi disorientava così tanto da farmi tornare di corsa nel mio bozzolo avvolgente di inconsapevolezza, in cui nulla funzionava a dovere, ma dove almeno mi potevo rifugiare nell’identificazione con il mio personaggio, sentirmi vittima degli eventi e dare comodamente la colpa agli altri.
E invece ora, con sta storia del risveglio, nemmeno quello mi è più rimasto!
Qui non solo devo affrontare l’esistenza esattamente così com’è, ma tutto ciò che mi accade è mia responsabilità, non posso dare nemmeno una colpa piccola piccola a nessuno, e in più mi tocca anche accettare me stessa e gli altri esattamente così come sono.
Ma siamo sicuri che noi, esseri umani, così fallaci e fragili e permeabili ad ogni singola emozione che porta il vento (tanto che a volte mi chiedo se mi abbiano cosparsa di qualche colla attira emozioni senza che io me ne sia accorta), possiamo anche solo aspirare, tendere ad un traguardo così elevato?
Possiamo davvero partecipare a questa scalata della “montagna della consapevolezza” e raggiungere la felicità?
Come accettare se stessi definitivamente
No, io mi arrendo: non ce la posso fare!
Silenzio.
Spegni la mente, il dialogo interno.
Immagina la scena: io sono seduta di fronte al mio maestro e gli dico esattamente queste parole: “Non ce la faccio”.
E lui mi risponde: “Proprio così, non ce la puoi fare. Ben arrivata in cima alla montagna, adesso ti puoi riposare”.
Era tutto lì, c’era solo questo da capire, non c’era nulla da scalare, da fare, da comprendere, da partecipare, da aggiustare, da perdonare, da bramare, da volere.
Solo questo: per accettare se stessi bisognava accettare di non potercela fare.
Wow.
Improvvisamente tutto quello che prima girava vorticosamente intorno a me si posa per terra, uno sconosciuto senso di pace mi pervade.
Se non ce la posso fare, allora non devo fare nulla per forza, con il disperato tentativo di “farlo bene” o in fretta o in qualunque altro modo.
Ho già perso in partenza, è inutile che mi affanni a vincere, ecco cosa vuol dire accettare se stessi e gli altri.
Ora l’ho compreso: in questa folle corsa nessuno vince, tranne chi si dimentica del traguardo e si gode il viaggio.
Godersi ogni meraviglioso istante di cui è composto questo viaggio, ecco cosa fare per raggiungere la felicità.
Ogni meraviglioso momento presente. Qui e ora. Tutto torna adesso, il cerchio si chiude, e al centro ci sono io, l’essere umano.
Allora ecco che capisco perché quelle frasi “accetta te stesso”, “accetta gli altri” non mi servivano a nulla di nulla e cosa vuol dire accettare davvero.
Per quale ragione accettavo per un po’ il mio compagno e poi dopo tre giorni tornavo a rompere le scatole a lui e ad essere infelice io per qualcosa di così importante che ora nemmeno mi ricordo cosa fosse.
Ma mi ricordo bene però l’infelicità mia e sua, le parole dette e quelle non dette, il distacco, la solitudine pur essendo in due.
L’addio apparente, perché poi alla fine ci si lascia con il corpo ma ogni persona con cui abbiamo condiviso la corsa resta comunque con noi per sempre in un modo o nell’altro.
I tentativi di farcela con quella relazione o quell’altra, tutti destinati inevitabilmente a fallire, perché non c’era niente da fare, ora lo so, c’era da essere.
Essere lì in quel momento presente, con tutta la gioia che solo stare nel presente può portare con sé, con tutto l’amore che si manifesta quando si è presenti a se stessi e inevitabilmente per osmosi, si è presenti agli altri.
Ironico che per accettare se stessi ci sia bisogno di riconoscere i propri limiti e fragilità, non credi?
Prova a ripeterlo: Non ce la posso fare.
Che pace.
Comprendere profondamente cosa vuol dire accettare se stessi
Accettare se stessi significa che all’interno di questo spazio possiamo farci stare di tutto, è come avere un sacco magico che non si riempie mai!
Possiamo provare a vivere ridendo di noi, sorridendo degli altri; osservando l’affaccendarsi in ogni momento che ci fa da specchio quando guardiamo il mondo con gli occhi di chi non sta più partecipando alla folle corsa per arrivare primi al traguardo, ma sta partecipando per il viaggo in se stesso, per mettere un piede davanti all’altro e sentire il terreno morbido sotto le scarpe, l’aria fresca sul viso, il sole o l’acqua che arrivano dal cielo scaldandoci o rinfrescandoci se ne abbiamo bisogno, e il cuore pieno di amore e di gratitudine per tutto ciò che c’è e che ci è dato.
Ma c’è qualcosa in più: accettare se stessi significa anche saper ricevere.
Saper ricevere dagli altri, sapere di meritare amore, ad esempio. Saper accettare di ricevere da se stessi, anche quando appunto non ce la facciamo a farlo.
Ma accettare non significa subire, anzi.
Un po’ come avviene nelle arti marziali, il principio è quello di assorbire energia per poi ridirezionarla verso ciò a cui tendiamo.
Capire cosa vuol dire accettare infine significa anche lasciar andare, non trattenere disperatamente qualcuno o qualcosa, rispettando che ognuno di noi ha un suo tempo, una sua storia e libero arbitrio a cui noi non possiamo opporci, ma che possiamo accompagnare e sostenere con amore se siamo benvoluti, o che dobbiamo rispettare allontanandoci se in quel momento non è richiesta la nostra presenza fisica.
Questo spazio di accettazione che racchiude la chiave per raggiungere la felicità, quello del “non ce la posso fare”, è ancora più difficile da raggiungere per tutti coloro che hanno imparato presto a fare da soli.
Per tutti coloro che pensano di dover sempre e solo contare sulle proprie forze, perché da piccoli si sono dovuti ad esempio occupare di un genitore, e hanno fatto esperienza del fatto che i loro bisogni non vengono ascoltati e nessuno si prende veramente cura di loro e quindi devono pensarci da soli perché nessuno pensa a loro.
A queste persone, così vicine alla mia storia, va il mio abbraccio totale, incondizionato, amorevole.
Voglio dirvi che per voi che avrete delle difficoltà nell’accettare se stessi, più che per tutti gli altri, questa affermazione deve diventare un mantra.
Dovete fermarvi e dirla a voi stessi con tutta l’intenzione di cui siete capaci e poi lasciar uscire quell’emozione che avete dentro di voi da tanto tempo.
Se piangerete, sappiate che quello è il pianto del vostro bambino emozionale che tanti anni fa ha pensato di dover pensare a tutto da solo, e che ha tenuto duro fino ad ora.
Ditegli che finalmente si può riposare, e può tornare a giocare felice, come tutti i bambini dovrebbero fare, perché ci siete voi ora, e non c’è più nulla che entrambi siete obbligati a fare per guadagnarvi il diritto di amare ed essere amati.
Adesso avete finalmente tutti gli strumenti per mettere insieme il puzzle che compone nella vostra mente la risposta alla domanda “Cosa vuol dire accettare”?
Siete sopravvissuti, ora è il momento di iniziare a godervi il viaggio e raggiungere la felicità che meritate.